Per sincronizzare i fotomoltiplicatori si accende un laser.
Per localizzare e identificare le particelle che interagiscono con il rivelatore, è necessario prima di sincronizzare al nanosecondo i fotomoltiplicatori che le captano. La calibrazione avviene illuminando contemporaneamente ciascun fotomoltiplicatore con un impulso generato da un laser che viaggia attraverso un sistema di fibre ottiche verso l’interno del rivelatore. In base ai tempi di risposta dei fotomoltiplicatori si effettua la calibrazione.
In un rivelatore di neutrini solari, le interazioni tra particelle (neutrini o radiazione di fondo) e il materiale scintillatore presente all’interno del rivelatore producono dei debolissimi bagliori di luce, che sono captati da strumenti chiamati fotomoltiplicatori. Per stabilire di che tipo di particella si tratta non solo è importante scoprire qual è la sua energia, ma anche in quale punto del rivelatore ha interagito. L’informazione sulla posizione è rilevante, perché solo le interazioni che avvengono in un volume che occupa la parte più centrale del rivelatore sono da considerare sicuramente buone; invece, segnali generati in punti vicini alle pareti del rivelatore sono per sicurezza scartati, perché potrebbero essere prodotti dalla radioattività delle pareti stesse. La ricostruzione della posizione è correlata alla distribuzione dei tempi in cui il fotomoltiplicatore ha captato il segnale.
Per la calibrazione si simula un’interazione illuminando con un laser tutti i 2214 fotomoltiplicatori contemporaneamente. In questo modo, misurando i loro tempi di risposta, si può capire quali fotomoltiplicatori rispondono un po' più lentamente e quali un po' più velocemente. La calibrazione è eseguita regolarmente nel tempo, per mantenere la sincronizzazione dei fotomoltiplicatori al di sotto del nanosecondo. Il sistema di calibrazione progettato per Borexino prevede che la luce sia generata al di fuori del rivelatore (per evitare di introdurre contaminazioni radioattive al suo interno) e che raggiunga i fotomoltiplicatori senza attraversare lo scintillatore attraverso fibre ottiche. La sorgente di luce è un laser capace di generare un impulso molto breve (50 picosecondi, ovvero 50 millesimi di miliardesimi di secondo) e di intensità paragonabile a quella che caratterizza la maggior parte delle interazioni che avvengono nel rivelatore.
Questi impulsi possono essere ripetuti a una frequenza di 40 MHz (40 milioni di volte al secondo), permettendo di raccogliere una grande quantità di dati di calibrazione in poco tempo. Ogni singolo impulso è trasmesso attraverso un sistema di 35 fibre ottiche che lo porta alla fine a illuminare uniformemente e contemporaneamente tutti i fotomoltiplicatori (Fig.1). Ogni materiale del sistema di calibrazione è stato scelto in base alle sue proprietà di resistenza e di radio-purezza, fondamentali per non aggiungere una fonte di radiazioni all’interno del rivelatore. Come per tutte le misure che si fanno ai LNGS, anche in questo caso sono richieste sensibilità altissime, che comportano una precisione di sincronizzazione di meno di 1 nanosecondo (cioè un miliardesimo di secondo). I ritardi delle risposte dei fotomoltiplicatori sono registrati da un software in modo automatico. Dopo aver registrato i tempi di risposta dei fotomoltiplicatori, ogni qualvolta si verifica una interazione nel rivelatore questi minuscoli anticipi e ritardi sistematici sono automaticamente aggiunti dai software di analisi dati, che sincronizzano così i segnali dei fotomoltiplicatori permettendo una ricostruzione accurata del punto in cui l’interazione è avvenuta.
Fig.1 Schema del sistema di calibrazione dei fotomoltiplicatori dell’esperimento Borexino. Un laser esterno produce un impulso che è iniettato in un fascio di 35 fibre ottiche; il fascio si divide entrando nella tanica d'acqua esterna e raggiunge dei punti d'entrata verso la sfera più interna del rivelatore. Qui dentro ognuna delle 35 fibre ottiche è accoppiata ad altre 90 fibre, che raggiungono ciascuno dei fotomoltiplicatori (i coni grigi in figura) montati sulla superficie interna della sfera. (Crediti: Maria Elena Monzani, PhD Thesis)
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